***Pubblichiamo il capitolo finale del volume “La trasparenza per gli enti di terzo settore” curato da Luca Gori e Giulio Sensi e edito da Pisa University Press per la collana “Ripensare il terzo settore”.
Quale proposta, dunque, è possibile formulare all’esito di questo lavoro? Una proposta operativa potrebbe essere quella di creare un Testo unico della trasparenza per gli enti senza fine di lucro o, per dirla con un anglismo (che è sempre di moda), un Transparency Act (in breve, in seguito, TA).
L’idea di fondo dovrebbe essere quella di promuovere un riordino degli adempimenti legati alla trasparenza per una categoria di enti – gli enti senza scopo di lucro (si preciserà fra poco a quali enti si fa riferimento) – in modo da rendere il più possibile omogenea la disciplina ed accessibili i dati, le informazioni, i fatti. Ciò comporterebbe una trasformazione notevole nel nostro ordinamento, in grado di rafforzare la fiducia dei consociati in soggetti che intercettano primari valori costituzionali nella loro attività o, comunque, svolgono attività di notevole importanza.
Nella costruzione di questo TA, bisognerebbe partire da una considerazione di base: l’esigenza di una trasparenza di base – come questo volume mostra – supera il Terzo settore e si rivolge, in generale, a tutti gli enti senza fine di lucro. Lo dimostrano i maldestri tentativi di estendere gli obblighi di trasparenza previsti per la P.A. al di là dei confini di quest’ultima (art. 2-bis, c. 2 d.lgs. n. 33 del 2013); l’allargamento degli obblighi previsti per i partiti politici anche a soggetti che, in realtà, tali non sono (legge n. 3 del 2019); la previsione di obblighi generalizzati e di dubbia efficacia, come quello relativo ai contributi ricevuti dalle PP.AA (art. 1, c.125, legge n. 124 del 2017) o a determinate attività di interesse generale (12-ter del decreto-legge n. 133 del 2018). Si deve prendere atto, cioè, che, nella società dei mezzi di comunicazione, dell’accesso facilitato alla tecnologia e dei big data, vi è una diffusa esigenza di accedere ad alcuni dati fondamentali relativi a determinati enti che, in ragione del fine che perseguono (non lucrativo), non sono soggetti alle forme di trasparenza e pubblicità previste per le imprese (principalmente attraverso il Registro delle imprese). Ciò non è legato tanto a ragioni di tutela dei creditori, bensì proprio – a giudizio di chi scrive – per una questione di fiducia i soggetti giuridici pongono. Poiché tali enti perseguono finalità diverse da quelle del profitto, esse toccano alcuni interessi ideali riferibili alla comunità, chiedendo ai consociati un loro impegno (spesso volontario), o risorse per conseguirli. Ciò avviene sia negli enti del Terzo settore, ma avviene pure nei partiti politici, nei sindacati, nelle organizzazioni di rappresentanza di interessi, nelle realtà che promuovono cultura, nell’associazionismo sportivo dilettantistico, ecc.
La proposta, quindi, è di individuare un set minimo di informazioni che ciascun ente senza fine di lucro, indipendentemente dalla propria qualifica, è tenuto a rendere noto. Ci si riferisci ad atto costitutivo e statuto, bilancio (magari redatto secondo alcune linee guida comuni, differenziate in ragione del volume di attività), ambito di attività, eventuali rapporti con la P.A. e contributi pubblici ricevuti, ricorso alla raccolta-fondi, ecc. Si tratterebbe di un «livello essenziale» di informazione, da mettere a disposizione di chiunque ne abbia interesse. Ciò non determinerebbe – così pare – alcun vulnus dell’autonomia costituzionalmente tutelata delle formazioni sociali né una deroga alla protezione del diritto alla riservatezza di alcuni dati o informazioni; al contrario, si individuerebbe un obbligo minimo di trasparenza rispetto ad adempimenti che, comunque, il codice civile (approvazione di uno statuto o di un bilancio, ad es.) o il TUIR (rendicontazione delle raccolte-fondi) già prevedono.
Quanto alla modalità con la quale realizzare la trasparenza, la pubblicazione su un sito web appare la forma più semplice ed immediata. Per quelle realtà che non avessero un sito web, non sarebbe difficile organizzare, presso gli enti territoriali, una pagina “vetrina” nella quale gli enti privi di sito web – sarebbe interessante capire quanti essi siano! – possono pubblicare i dati loro riferiti (già oggi avviene sui siti dei CSV per l’adempimento di quanto previsto dalla legge n. 124 del 2017, art. 1, c. 125; ma il Codice del Terzo settore prevede che taluni obblighi possano essere adempiuti sul sito delle reti associative cui gli ETS aderiscono).
Non si toccherebbe la disciplina dei tipi previsti dal Libro I, Titolo II del codice civile (che pare impossibile da modificare!), ma si introdurrebbe uno specifico obbligo di trasparenza e pubblicità, in grado di “rinverdire” anche le scarne norme del codice civile. La quali continuerebbero ad assicurare gli ampi spazi di libertà che hanno sino ad oggi garantito, ma si tratterebbe di una libertà trasparente, sul cui esercizio ciascuno potrebbe formulare una propria primissima valutazione.
Definito questo livello essenziale, la disciplina dovrebbe essere specializzata in relazione alle diverse tipologie di enti. Si dovrebbe quindi aprire una disciplina della trasparenza ad hoc per gli enti del Terzo settore (concentrata, se possibile, nel Codice del Terzo settore), per i partiti politici (di cui sarebbe opportuno dettare una definizione, al di là di quanto stabilito dal d.lgs. n. 149 del 2013), per gli enti che perseguono finalità politiche (riprendendo i contenuti, non del tutto convincenti, della legge n. 3 del 2019), gli enti che svolgono qualificati come sindacati, associazioni professionali e di rappresentanza di categorie economiche, associazioni di datori di lavoro (secondo definizioni in gran parte da porre), gli enti che ricevono contributi a carico della P.A. non ricompresi in categorie precedenti, ecc.
Per ciascuna di tali categorie, il legislatore dovrebbe delineare obblighi specifici in relazione alla finalità perseguita. Così, ad es., per un partito politico o per una associazione politica costituisce un elemento fondamentale conoscere gli elenchi e gli importi di donazioni e contributi ricevuti, i trasferimenti provenienti dai gruppi parlamentari o consiliari, ecc. Oppure, per un ente che riceve stabilmente contributi a carico della P.A., vi rilevante conoscere come tali somme sono state spese, in forme comprensibili e secondo modalità comuni, ecc. O, ancora, un ETS, in ragione delle misure promozionali di cui è destinatario, deve impegnarsi a redigere determinate forme di rendicontazione e pubblicizzare alcuni dati rilevanti connessi a tali misure. Ciascun obbligo dovrebbe essere assistito dalla possibilità di pubblicare delle note illustrative, in grado di dare evidenza del contenuto dei dati, di eventuali anomalie o contingenze (ad es., gli effetti della pandemia, i ritardi della P.A. nel trasferimento di risorse, ).
Il TA dovrebbe prevedere un quadro uniforme delle misure sanzionatorie nel caso di inadempimento degli obblighi. Ciò potrebbe aiutare ad evitare di prevedere sanzioni del tutto sproporzionate o irragionevoli, legate a singoli temi che destano clamore nell’opinione pubblica (ad es., le sanzioni previste per l’inadempimento degli obblighi nel settore dell’immigrazione); o, per altro verso, una nebulosità sulle sanzioni, tale da rendere ineffettive o addirittura non applicabili.
Ma un TA potrebbe avere anche una finalità promozionale. Al di là degli obblighi di trasparenza, il TA potrebbe prevedere una serie di misure premiali nel caso in cui, volontariamente, un ente rende trasparenti informazioni ulteriori rispetto a quelle cui sarebbe normativamente tenuto. Ciò potrebbe essere realizzato, ad es., attraverso contributi di natura economica a supporto dell’adempimento degli obblighi di trasparenza; attraverso incentivi fiscali; attraverso l’erogazione di servizi di supporto. Ad es., l’adozione di un codice di qualità ed autocontrollo e la messa a disposizione, in tutto o in parte, degli esiti del monitoraggio, potrebbe diventare una buona prassi incentivata. La prospettiva promozionale dovrebbe essere calibrata in relazione alle finalità dei diversi enti, alle loro modalità di operatività, alle loro dimensioni… La prospettiva, in definitiva, è quella di conferire alla trasparenza una rilievo pubblicistico: non è solo una questione di rapporti fra l’ente ed il privato portatore di un interesse rispetto a quell’ente, ma viene in rilievo anche un interesse pubblico a che quei rapporti siano improntanti alla massima affidabilità, conoscibilità, leggibilità, ecc. Dal fatto quei rapporti abbiano queste caratteristiche, anche il potere pubblico ne trarrà una utilità. Senz’altro ciò è vero per gli enti del Terzo settore, ma le considerazioni sono estendibili anche agli enti che perseguono finalità di interesse generale (pur al di fuori del Terzo settore).
Questo lo scheletro che si immagina per un TA. L’impatto simbolico sarebbe indubbiamente notevole. Si proverebbe ad uscire dalla prospettiva di una trasparenza che soddisfa esclusivamente «mere curiosità» o che, per altro verso, «l’opacità per confusione, proprio per l’irragionevole mancata selezione, a monte, delle informazioni più idonee al perseguimento dei legittimi obiettivi perseguiti», denunciata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 20 del 2019. Si tenterebbe, invece, di entrare in una prospettiva di fisiologia della trasparenza, che aiuterebbe indubbiamente il rapporto fra singoli, enti collettivi e potere pubblico e la costruzione di “fiducia”. E, in definitiva, alla democrazia.