Negli ultimi anni, la letteratura scientifica sul Terzo settore ha conosciuto una crescita significativa. Le riflessioni prodotte hanno toccato varie sensibilità, rispecchiando l’interesse registrato dalla questione nel dibattito pubblico e accademico. Eppure, sul piano storiografico continua a rimanere una pagina bianca, un campo solo sfiorato e ancora in cerca di un’adeguata problematizzazione.
Alla base di questa lacuna si trovano varie motivazioni. Su tutte, il fatto che in Italia la definizione di Terzo settore sia arrivata relativamente tardi, attorno alla metà degli anni Ottanta. Ciò ha contribuito a formulare analisi di carattere giuridico, economico e sociologico, lasciando alla contemporaneistica l’attesa di un adeguato spazio d’indagine. A questo fattore si è poi sommata un’ulteriore criticità: ovvero, la tendenza a considerare in modo marginale i soggetti non istituzionali di natura associativa. Oggi, tuttavia, la ricerca incentrata sulle dinamiche del welfare statee dell’assistenzialismo sembra finalmente pronta a consegnare un perimetro metodologico allo studio del Terzo settore; nel dettaglio, ad una delle sue maggiori espressioni: il volontariato. Ed è proprio su quest’ultimo aspetto che vorrei concentrare questa disamina, indagandone il processo di istituzionalizzazione.
Da dove muovere, quindi? Come evidenziato da Renato Frisanco e Costanzo Ranci, dovremmo anzitutto parlare di «stagioni diverse del volontariato» (Le dimensioni della solidarietà: secondo rapporto sul volontariato sociale, 1999). Da un lato, infatti, è ormai assodato come questo abbia mantenuto una presenza più o meno costante all’interno della società, modulando la sua declinazione in base agli spazi e alle esigenze della popolazione: un quadro confermato – tra gli altri – dallo sforzo comparativo di Bernard Harris e Andrew Morris (History of Associations and Volunteering, 2016), arricchendo quanto già espresso pochi anni prima da Hilton e Mckay (The Ages of Voluntarism. How we got to the Big Society, 2011). Dall’altro, invece, restano ancora molti gli interrogativi attorno al tentativo di periodizzare il passaggio da un volontariato di natura informale ad uno di tipo formale.
La questione trova il suo punto nevralgico proprio qui: nel riconoscimento istituzionale del volontariato e nel peso da esso giocato all’interno del Terzo settore. Lo spartiacque di questo percorso deve essere necessariamente individuato nel 1991, anno in cui furono varate le leggi 266/1991 (sulla regolamentazione del rapporto tra Organizzazioni di Volontariato ed enti pubblici) e 381/1991 (sul disciplinamento delle Cooperative sociali). Al contempo, le tappe che lo resero possibile non possono prescindere dalla formulazione di un intreccio retrospettivo tra espressioni della cittadinanza, sistema politico e trasformazioni socioeconomiche, adottando una lente in grado di spostare – attraverso un dialogo multidisciplinare – la riflessione su più nodi problematici. In questa sede ne vorrei sottolineare almeno tre, strettamente correlati tra loro: volontariato e crisi (a); volontariato e precarietà (b); volontariato e sistema partitico (c).
Risulterebbe impossibile comprendere il superamento di una dimensione mutualistica e caritativa del volontariato (in larga parte ancora da ricostruire) senza interrogarci sull’impatto sociale della crisi economica e politica che caratterizzò gli anni Settanta (a). Le crepe nel sistema del welfare – tangibili anche a livello europeo – posero al centro i prodromi di una spinta dal basso intenzionata a fuoriuscire dalle deleghe partitiche, incoraggiando in tal senso una graduale integrazione del volontariato nel sistema (destinata a concretizzarsi nel 2001 con la riforma del titolo V della Costituzione e l’introduzione del principio di sussidiarietà). A ciò si aggiunsero richieste sempre più insistenti per uno stato sociale decentrato, territoriale e a misura di cittadino, sollecitando l’attuazione di quel «pluralismo sociale» garantito dall’articolo 2 della Costituzione ma a lungo soverchiato dal «pluralismo politico-sindacale» (Roberto Borrello, Mutualità e servizi alla persona nel quadro costituzionale del nuovo welfare, 2011). Fattori che, oltretutto, favorirono la concretizzazione di tappe intermedie dalla grande valenza istituzionale, dal conferimento regionale di un ruolo di primo piano ai soggetti del privato sociale all’articolo 45 del Sistema Sanitario Nazionale (1978), fondamentali nel garantire e stimolare – coadiuvando un nucleo essenziale di prestazioni stabilite dallo Stato – l’operatività delle organizzazioni del Terzo settore.
Più complesso si presenta l’intreccio tra volontariato e precariato (b). Questa pista consegna un’ipotesi –di matrice statistica e quantitativa – tutta da verificare, eppure plausibile qualora ricondotta alla diffusione di rinnovate forme di lavoro precario negli anni Settanta, all’emergere del paradigma della flessibilità negli anni Ottanta e alla nuova ondata di instabilità occupazionale che ha caratterizzato gli anni Novanta e Duemila. Per una componente della forza lavoro occupabile, di fatto, il volontariato non configurò più solo un’attività a cui dedicare parte del proprio tempo libero, bensì un canale importante per soffocare le ripercussioni – anche mentali – dall’inoccupazione attraverso servizi di pubblica utilità. Se, da una parte, questa condizione si trovò così a riflettere una forma di conflittualità sociale diversa (esemplare la nascita di movimenti vicini alle tematiche dell’emarginazione, del pacifismo e dell’ambientalismo), destinata a riemergere gradualmente contro le mancanze istituzionali nella normalizzazione della crisi globale, dall’altra contribuì a ricercare nel volontariato forme di dipendenza e collaborazione alimentate dalla possibilità di ottenere un qualche margine retributivo.
Infine, un ulteriore spazio di analisi potrebbe concernere lo studio del rapporto eterogeneo tra volontariato e sistema partitico (c). Ciò non significa operare una mera ricostruzione del dibattito parlamentare che anticipò la leggere quadro 266/1991. Piuttosto, implica comprendere le diverse sensibilità che animarono una discussione ancora troppo spesso ricondotta ad esclusiva prerogativa del mondo cattolico. Pur in ritardo rispetto alla Democrazia Cristiana, ad esempio, anche il Partito Comunista Italiano fornì un apporto ragguardevole alla causa, concorrendo a rendere il volontariato un soggetto istituzionalizzato – da affiancare, con venature di controllo sociale, agli organismi di rappresentanza tradizionali – verosimilmente capace di avanzare una riforma della politica e di dar voce alle istanze delle classi meno abbienti. Come osservato da Davide Gobbo (La legge 266/91: il lungo processo di riconoscimento del volontariato, 2017), inoltre, questo aspetto risulta importante tanto per sfatare il mito negativo di un Pci poco propenso ad appoggiare «iniziative nate fuori dal sistema dei partiti», quanto perché «attorno al volontariato» prese forma una parte di quel dialogo tra comunisti e componente progressista della Dc (in particolare quella vicina alle Acli) che portò a ridisegnare i confini del centrosinistra italiano dopo Tangentopoli.
Invero, resterebbe un ultimo aspetto da evidenziare. Quello relativo alle fonti. La ricerca storiografica sul Terzo settore sembra di fatto richiedere un dialogo tra documentazione edita, bibliografia scientifica e nuove acquisizioni proteso a dirci di più sulla vastità del campo d’indagine. Da questo punto di vista, si staglia in primo luogo la possibilità di acquisire una memoria orale del volontariato: dal basso, intervistando protagonisti che animarono la vita delle varie associazioni; dall’alto, recuperando le riflessioni dei rappresentanti politici e sindacali che contribuirono – in diversa misura – a scorgervi un potenziale grimaldello per scardinare l’impasse istituzionale e sopperire alle difficoltà dell’assistenzialismo statale. A tal proposito, disponiamo anche delle testimonianze monografiche consegnate da alcuni dei protagonisti che animarono l’associazionismo del secondo dopoguerra, tra cui Luciano Tavazza (fondatore del Movimento di volontariato italiano) e don Giovanni Nervo (ex presidente della Caritas e della Fondazione Zancan). Per chiudere, vi è poi un considerevole patrimonio archivistico ancora largamente inesplorato. Ai fondi delle singole associazioni, alle emeroteche e ai materiali privati si sommano infatti depositi di rilievo come quelli conservati presso il Centro di ricerca Maria Eletta Martini di Lucca, l’Archivio del Movimento Cattolico Lucchese (dove è custodita parte della documentazione prodotta da una delle più importanti fautrici della legge quadro sul volontariato, Maria Eletta Martini) e l’Istituto Sturzo di Roma.
In conclusione, all’interno di questa breve digressione ho quindi cercato di fornire alcuni spunti utili – sul piano metodologico e documentario – ad aprire una riflessione di natura storiografica sul volontariato e sul Terzo settore. L’ho fatto senza particolari pretese, se non quella di consegnare un’idea anche solo parziale delle tante piste percorribili. In questa direzione – peraltro – hanno già visto la luce progetti di ricerca come quello promosso dal Centro di ricerca Maria Eletta Martini, dalla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e dalla Fondazione per la Coesione Sociale Onlus di Lucca, incentrato sulla storia delle leggi sul volontariato e la cooperazione. Un passo importante verso un campo ancora poco conosciuto, collocabile tra le trasformazioni internazionali e le riforme territoriali messe in atto dai processi di crisi e di globalizzazione; allo stesso tempo, una base ormai imprescindibile per lo studio dell’integrazione europea e della riforma dei sistemi di welfare.
A cura di Federico Creatini