L’attuazione del codice del Terzo settore nella normativa del Friuli Venezia Giulia: spazi di autonomia normativa e opportunità per una legge regionale

Riportiamo integralmente la relazione di Luca Gori al convegno “Nuove sfide per la solidarietà in Friuli Venezia Giulia“, che si è svolto giovedì 22 ottobre, nella quale viene fornita una panoramica dello stato complessivo di attuazione della riforma del Terzo settore in Italia.

L’attuazione del codice del Terzo settore nella normativa del FVG

Il percorso di attuazione del codice del Terzo settore si sta muovendo su una pluralità di piani e lo sforzo di questa fase è di tenere insieme tutti questi percorsi. Non tutti sono leggibili in maniera chiara, perché diversi sono gli sia attori sia i procedimenti in atto.

Il primo e più rilevante aspetto nel percorso di attuazione della riforma del Terzo settore si colloca sul piano normativo, attraverso l’adozione dei decreti ministeriali e degli altri atti che il Codice del Terzo settore (d.lgs. n. 117 del 2017, di seguito CTS) prevede per la propria piena operatività.

Nelle ultime settimane è stato adottato il decreto ministeriale n. 106 del 2020 (previsto dall’art. 53 CTS) che ha istituito il Registro unico nazionale del terzo settore (Runts). Da qui parte uno degli itinerari più interessanti e più importanti per l’attuazione della riforma, scattando altresì i termini per ciascuna regione per l’attuazione del registro unico nazionale (180 giorni).

Accanto all’attuazione normativa, che ancora registra alcuni pezzi importanti mancanti – ad esempio, il decreto sulle attività diverse secondarie strumentali, il decreto sulla raccolta fondi che ancora non è stato adottato, l’autorizzazione dell’Unione Europea che dovrebbe sbloccare l’efficacia delle misure a carattere fiscale della riforma – si può ritenere che, complessivamente, il piano normativo ha intrapreso un percorso ben orientato.

Vi è poi l’attuazione sul piano dell’interpretazione. Il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali sta intervenendo in maniera molto puntuale sull’interpretazione delle diverse disposizioni del CTS, sia nella forma della circolare sia nella forma della risposta a quesito. Questo intervento sta assumendo dimensioni rilevanti e sta aiutando significativamente gli interpreti nell’applicazione della riforma.

Si registra poi anche una prima attuazione di tipo giurisprudenziale. A distanza di tre anni dall’entrata in vigore della riforma, i giudici si stanno già occupando di alcune questioni nodali. Un contenzioso che vede impegnati principalmente il giudice costituzionale, nel contenzioso tra Stato e Regioni – tema di grande interesse per i lavori che si dovranno svolgere anche nella regione Friuli Venezia Giulia – ed il giudice amministrativo e il giudice contabile, per ciò che attiene i rapporti fra Terzo settore e Pubblica Amministrazione. Si registra un numero non trascurabile di sentenze che consentono di delineare i primi paradigmi interpretativi adottati dal formante giurisprudenziale, tanto dal giudice costituzionale (C.cost. nn. 185/2018 e 131/2020, in particolare) quanto, e soprattutto, da quello amministrativo.

Vi è, inoltre, l’attuazione sul piano dell’autonomia regionale e locale. Sia il CTS, espressamente, sia implicitamente il sistema di riparto delle competenze tra Stato e Regioni delineato in Costituzione, configurano un ruolo non trascurabile per le regioni nell’attuazione della disciplina sul Terzo settore.

In questo momento due sole Regioni hanno adottato delle norme di attuazione specifica del codice. L’una è la regione Emilia Romagna, che in realtà si è limitata a ridefinire gli organi di rappresentanza e partecipazione del Terzo settore nelle attività amministrative regionali (L.R. n. 20 del 2017) , l’altra è la Regione Toscana (L.R. n. 65 del 2020) che ha dato una disciplina complessiva all’interno dell’ordinamento regionale con una legge che ha aperto una discussione per i contenuti innovativi proposti, specialmente sotto il profilo del rapporto fra Pubblica Amministrazione e Terzo settore.

Infine, vi è un elemento importante – forse un po’ trascurato, ma in realtà decisivo – costituito dall’attuazione della riforma tramite comportamenti degli attori sociali e istituzionali. È evidente che la riforma del Terzo settore, puntando a disciplinare l’esercizio dell’autonomia privata da parte di soggetti collettivi al fine di promuovere ed incentivare, “vive” anche e soprattutto dei comportamenti e delle scelte dei soggetti che fanno parte o che, più in generale, hanno relazioni con il Terzo settore (ad es., le fondazioni di origine bancaria, la P.A.). È questo sistema di scelte riferibili all’autonomia privata che debbono essere studiate, specialmente avvicinandosi alla scadenza del 31 ottobre per l’adeguamento degli statuti (art. 101, c.2 CTS, sebbene il termine non sia perentorio). Si tratterà probabilmente di una occasione per tracciare un primissimo bilancio su quali siano state le scelte e le riallocazioni delle qualifiche dentro il perimetro del Terzo settore, nonché la verifica su chi abbia scelto di permanere dentro il Terzo settore, di chi avrà scelto di entrarvi e chi invece avrà scelto di rimanerne fuori.

Il quadro è, dunque, molto complesso e si struttura su una pluralità di piani che si muovono in modo non propriamente coordinato fra loro. Funzione propria dei giuristi è, allora, ricondurre all’interno di un quadro unitario tutti questi scenari.

Il contributo della giurisprudenza costituzionale

Il contributo che ha dato la giurisprudenza costituzionale è molto importante per il tema dell’attuazione regionale della disciplina del Terzo settore. La Corte costituzionale ha delineato vere proprie linee interpretative del rapporto fra lo Stato e le regioni dopo la riforma, in una linea di sostanziale continuità con il passato. Dall’entrata in vigore della riforma, si possono segnalare cinque sentenze importanti (sentenze n. 185 del 2018; n. 277 e 285 del 2019; n. 27 e 131 del 2020) e (almeno) due questioni ancora pendenti davanti alla Corte costituzionale legate al problematico rapporto tra Stato e Regioni (ricorsi nn. 43 e 111 del 2019, entrambi aventi ad oggetto leggi regionali della Sardegna).

Fondamentale nella lettura costituzionale del Terzo settore è stata la sentenza n.131/2020, una sentenza che è stata definita, giustamente, epocale e che ha aggiornato quella n. 75/1992 sul volontariato. La questione di costituzionalità che la Corte era chiamata ad affrontare nel 2020 era, tutto sommato, modesta. Il giudice costituzionale ha prescelto opportunamente di sviluppare una argomentazione ampia, con un andamento quasi didascalico e, apparentemente, sovrabbondante rispetto alla questione da risolvere. Si è trattato di una sentenza che ha inteso affrontare sia la dimensione del fondamento costituzionale del Terzo settore, sia le conseguenze sul piano della sua regolazione, sia i problemi di lettura della disciplina del Terzo settore nella prospettiva del diritto dell’Unione Europea, nonché i riflessi sul riparto fra Stato e Regioni. Quindi, si tratta di un testo fondamentale di riferimento per orientare il lavoro di attuazione all’interno delle Regioni del CTS.

Un primo elemento importante che la giurisprudenza costituzionale ci conferma è che il Terzo settore, di per sé, non è una materia in senso stretto, è piuttosto un modo di essere della persona umana all’interno dell’ordinamento costituzionale (C. cost. n. 185 del 2018). Esso è espressione delle libertà sociali, ossia di quelle libertà spettanti ai soggetti privati che operano per scopi di utilità collettiva e di solidarietà sociale (è una categoria molto discussa, in dottrina), la cui disciplina spetta, in base diversi ambiti materiali, allo Stato e alle Regioni.

È questo, però, un primo elemento di complessità. Il Terzo settore non si atteggia come un monolite, la cui disciplina spetta o allo Stato o alle Regioni, ma è un oggetto complesso che è attraversato al suo interno da diversi fasci di competenza statali e regionali, i quali devono trovare una loro regola costituzionale di coesistenza. È l’art. 117 Cost. che definisce i diversi ambiti di competenza legislativa. Nella Regione Friuli Venezia Giulia, il parametro di riferimento è la disciplina contenuta nello Statuto speciale di autonomia della Regione. Su questo punto, l’orientamento interpretativo più convincente è che le norme dettate dal legislatore statale per configurare il Terzo settore, siano da leggere quali norme espressive di grandi riforme economiche e sociali che costituiscono un limite anche all’autonomia legislativa statutaria della Regione (art. 4, comma primo, Statuto).

Ad oggi, è possibile evidenziare alcune regole che la Corte ha delineato.

La prima è che la categoria normativa degli enti del Terzo settore, così come definita dal legislatore statale nell’ambito della propria competenza legislativa esclusiva, è da ricondurre alla materia di competenza legislativa esclusiva statale in tema di ordinamento civile. Afferma la Corte che vi è una esigenza di uniformità su tutto il territorio nazionale, anche al fine di garantire l’autonomia di queste formazioni sociali rispetto ai poteri pubblici. Colpisce, infatti, che la Corte – riprendendo l’insegnamento della sentenza n. 75 del 1992, insista non solo sulla necessità di garantire l’uniformità di rapporti in orizzontale tra i privati, bensì pure in verticale, cioè di rapporti tra Terzo settore e Pubblica Amministrazione. Ogni Regione non può creare il “proprio” Terzo settore, quasi “a propria immagine e somiglianza”, ma vi è una esigenza di carattere unitario per cui le caratteristiche proprie del Terzo settore, che danno attuazione al principio solidaristico, devono esprimere un contenuto minimo unitario e uniforme a livello nazionale.

L’altro elemento forte che emerge dalla giurisprudenza è che il punto di bilanciamento nel rapporto tra Pubblica Amministrazione e Terzo settore, per quanto riguarda l’equilibrio tra principio di solidarietà da un lato e tutela della concorrenza dall’altro, deve essere definito anch’esso dal legislatore statale. Spetta a quest’ultimo definire il punto di bilanciamento – si potrebbe dire “il punto in cui la concorrenza diventa cedevole rispetto alla solidarietà” –  in cui determinate forme di coinvolgimento dei soggetti del Terzo settore nelle attività e nelle funzioni della pubblica amministrazione può avvenire in base a un principio diverso rispetto a quello espresso dalla tutela della concorrenza, così come incarnata dalle norme di derivazione europea.

Da questo discende che le Regioni non possono estendere le norme promozionali previste dalla disciplina statale sul Terzo settore al di là del suo perimetro stabilito dal medesimo legislatore statale. Vi sono stati dei tentativi delle Regioni di estendere le norme previste al di là di tale perimetro: la Corte ha ritenuto non conforme al quadro costituzionale, perché potrebbe sfigurare il volto proprio del Terzo settore.  Allo stesso tempo, non è vietato alle Regioni prevedere benefici ulteriori rispetto a quelli previsti dal legislatore statale, fermo restando che non può essere modificata la categoria degli enti del Terzo settore e che i benefici ulteriori devono essere comunque contenuti entro un limite di ragionevolezza. In definitiva tali benefici, che la Regione può ulteriormente attribuire agli enti del Terzo settore, rispetto a tutti gli altri enti, devono essere correlati ad una dimensione di promozione ragionevole connessa alle finalità ed alle attività svolte. Diversamente si tradurrebbero in una norma di privilegio e, in quanto tale, irragionevole. Ad esempio una norma che imponesse la qualifica di ETS per svolgere una determinata attività di interesse generale, non potrebbe essere considerata conforme a Costituzione. Un tentativo di qualche Regione di limitare ad esempio lo svolgimento di alcune attività di interesse generale solo agli enti del Terzo settore.

Allo stesso modo le Regioni possono graduare le norme promozionali tra i diversi enti del Terzo settore, ove esista una ragionevole motivazione alla base di tale graduazione. Questo è un punto molto interessante su cui la Corte tornerà anche prossimamente, a proposito di una questione che ha ad oggetto una legge regionale della Sardegna (L.R. n. 48 del 2018), la quale ha “graduato” alcune norme promozionali regionali in base alla qualifica posseduta o alla forma giuridica. Il Governo ha dubitato della legittimità costituzionale di tale scelta in quanto essa non sarebbe espressiva di una motivazione ragionevole e non guarderebbe al Terzo come categoria normativa unitaria. Parrebbe di comprendere, dal tenore del ricorso governativo, che laddove misure regionali (ma il principio mi pare valga anche per le norme statali) guardassero ad una sola parte del Terzo settore – impresa sociale, organizzazioni di volontariato, singole porzioni – occorra una valida ragione che potrà essere sottoposta al sindacato da parte della Corte costituzionale.

Alcune leggi regionali, per esempio, hanno limitato la possibilità di concludere convenzioni in taluni ambiti solo alle APS, o solo alle organizzazioni di volontariato o solo agli enti iscritti in un determinato registro. Questo è un tentativo che la Corte ha stroncato: si è argomentato che o vi è una specifica idoneità di quell’ente a svolgere determinate attività a preferenza di altri, oppure, se questa idoneità non è motivata, si tratta di una norma cha risulta irragionevole e discriminatoria (C.cost. n. 277 del 2019).

Le Regioni possono introdurre autonome qualificazioni degli enti senza fine di lucro (come in effetti hanno fatto: si pensi alle imprese di comunità, ad esempio), ma non possono omologare la posizione di tali enti con quella degli enti del Terzo settore. Ciò significa che ciascuna Regione può, nell’ambito della propria autonomia, introdurre, all’interno del pluralismo sociale, proprie qualificazioni di enti al quale ricondurre determinati benefici (si pensi alla vicenda che ha dato origine alla sentenza n. 131 del 2020, cioè la creazione di una categoria ibrida, enti a cavallo tra Terzo settore e impresa, quali erano le imprese di comunità). Tale qualificazioni di diritto regionale non possono essere, invece, in alcun modo omologate a quella di ente del Terzo settore. È necessario, a giudizio della Corte, che le misure di favore per questi enti di diritto regionale si devono basare su una diversa configurazione di rapporti.

È un tema decisivo: poiché è prevedibile che una parte di Terzo settore sostanziale non acquisirà la qualifica di ente del Terzo settore in senso proprio – si pensi al dibattito che sta animando il mondo sportivo dilettantistico o il mondo del volontariato di piccole dimensioni – emerge la necessità di recuperare un rapporto fra gli enti territoriali e questi soggetti giuridici che saranno fuori dal Terzo settore, tramite la configurazione di una categoria ad hoc di enti, almeno sul territorio regionale. Nel dibattito che ha accompagnato la legge toscana n. 65 del 2020 questo è stato uno dei temi più rilevanti.

Gli oggetti rinviati esplicitamente all’autonomia regionale dal codice del Terzo settore

Mettendo in evidenza gli oggetti che sono rinviati esplicitamente all’autonomia regionale da parte del codice, se ne possono individuare diversi.

Istituzione dell’ufficio regionale del registro del Terzo settore

Il primo oggetto fondamentale è l’istituzione dell’ufficio regionale del Registro unico del Terzo settore. A decorrere dall’entrata in vigore del decreto ministeriale n. 106/2020, ciascuna Regione dispone di 180 giorni per individuare la struttura competente per la gestione del registro. Ci si è interrogati sulla necessità di una legge in merito. Si può rispondere in maniera affermativa, poiché questo ufficio sarà una struttura che si incardinerà all’interno di una struttura nazionale che andrà a esercitare delle funzioni molto delicate (elencate all’articolo 4 comma 2 del D.M.), che attengono alla verifica dei presupposti per l’iscrizione, al controllo periodico sul mantenimento, alla cancellazione e alla devoluzione dei patrimoni. Per questo, anche in forza del principio di legalità, la strutturazione di un ufficio regionale chiamato ad esercitare delle funzioni così rilevanti avrà bisogno quantomeno di un fondamento di tipo legislativo.

Rapporti fra P.A. e Terzo settore

Il secondo elemento rilevante è la disciplina dei rapporti fra Pubblica Amministrazione e Terzo settore. L’articolo 55 CTS rimanda esplicitamente al ruolo che ciascuna amministrazione, anche territoriale, deve svolgere nell’assicurare il «coinvolgimento attivo» degli enti del Terzo settore nell’esercizio delle proprie funzioni. Ciascuna Regione, quindi, può declinare un proprio procedimento di «amministrazione condivisa» (come lo definisce la Corte costituzionale) in relazione alle specificità del territorio e alla fisionomia propria del Terzo settore regionale. L’intervento tramite la legge regionale consentirà di conformare l’esercizio delle funzioni amministrative regionali e enti locali, nelle materie di competenza regionale, dando, da un punto di vista organizzativo e funzionale, una nuova immagine di amministrazione regionale, configurando dei veri e propri procedimenti ispirati al principio di sussidiarietà in parte del tutto nuovi rispetto al passato ed aperti a tutti gli ambiti di attività di interesse generale. Si è abituati ad utilizzare le forme di coinvolgimento attivo soprattutto nel campo sociale e socio sanitario. In realtà, l’articolo 5 del CTS apre a tutti gli ambiti di attività di interesse generale: dalla cultura all’ambiente, dall’istruzione alle emergenze abitative, alla lotta alla dispersione scolastica ecc.. La disposizione chiede di ridisegnare complessivamente il rapporto tra Terzo settore e Pubblica Amministrazione attraverso una pluralità di procedimenti, ciascuno con una propria specificità: ci sarà bisogno avere uno scheletro di procedimento comune e di adeguamenti in relazione alle singole attività di interesse generale. È perciò sempre necessario declinare al plurale questo tema dei rapporti: nella prassi, si avranno co–programmazioni e co–progettazioni, al plurale.

Misure a carattere fiscale

Sul fronte delle misure a carattere fiscale, il CTS prevede la possibilità di definire misure fiscali di vantaggio per i tributi regionali, indicando le più rilevanti (Irap, IPT, bollo auto, ecc.). È evidente che ci sono (almeno) due problemi rendono difficoltosa l’attuazione di questa misura.

La prima è determinare quantificazioni attente degli oneri derivanti dall’applicazione delle misure di carattere fiscale, poiché, non avendo ancora definito tramite il RUNTS quale sia il perimetro degli enti del Terzo settore, è assai complesso poter definire quanti siano gli aventi diritto e quale l’impatto effettivo sulle finanze regionali.

La seconda è la mancanza, al momento, dell’autorizzazione dell’Unione Europea per le misure a carattere fiscale (art. 101, c.10 CTS). Questo è uno dei punti nevralgici i dell’attuazione della riforma del Terzo settore – come si è già detto – poiché la mancanza dell’autorizzazione da parte della Commissione europea delle misure a carattere fiscale (non avendola il Governo ancora richiesta) congela l’impianto fiscale della riforma del Terzo settore. Pertanto lo sblocco di questa partita rappresenta uno degli elementi davvero decisivi per l’attuazione della riforma nei prossimi mesi.

Altre misure a carattere promozionale

Altre misure a carattere promozionale previste dal CTS sono le misure per l’accesso e l’utilizzo del fondo sociale europeo da parte degli enti del Terzo settore (art. 69 CTS). Questo potrebbe diventare uno dei temi sui quali sviluppare forme di co–progettazione e co–programmazione.

A ciò si aggiunga la disciplina del comodato dei beni immobili pubblici non utilizzati di proprietà regionale o dei beni culturali (art. 7 CTS), anche grazie all’attuazione del c.d. social bonus (art. 81 CTS).

Volontariato

Le disposizioni sul volontariato, almeno implicitamente, rimandano in due casi all’esigenza di una disciplina regionale.

Il primo è la promozione della cultura del volontariato da parte delle Pubbliche Amministrazioni (art. 19 CTS). Spettando anche alla Regione definire le risorse e le modalità di promozione della cultura del volontariato. In ogni caso, merita una riflessione definire il significato di cultura del volontariato, e come questa debba essere promossa da una Pubblica Amministrazione, rispetto alla quale occorre sempre salvaguardare la dimensione di autonomia del volontariato.

L’altro elemento interessante, su cui anche la legge regionale Toscana (art. 8, L.R. n. 65 del 2020) molto si dilunga, anche in relazione ad un dibattito nazionale assai vivace, è quello del riconoscimento delle nuove forme di volontariato al di fuori degli enti del Terzo settore. L’art. 17, c.2 del CTS contiene una definizione generale di volontario e di attività di volontariato aprendo al fatto che questa attività si possa svolgere anche al di fuori di un ente del Terzo settore, in forme del tutto autonome o direttamente di rapporto con la Pubblica Amministrazione (addirittura, nell’ambito di un ente for profit).

La recente L. R. Toscana ha preso le mosse dalla constatazione che, in Regione, già vi fossero da tempo delle forme di reclutamento di volontari da parte delle Pubbliche Amministrazioni per lo svolgimento di attività di interesse generale, soprattutto di cura dei beni comuni. Si tratta di volontari che entrano individualmente in rapporto con la Pubblica Amministrazione. La scelta normativa toscana è stata di dare una disciplina giuridica a questo rapporto, in forme unitarie su tutto il territorio regionale. È stata una scelta profondamente discussa, che ha posto poi in evidenza anche il nodo del rapporto fra il volontariato singolo, autonomo, e il volontariato organizzato (specialmente nelle ODV e nelle APS).

Cooperazione sociale

La legge n. 381/1991, rimasta indenne dopo la riforma del Terzo settore, rimanda alle leggi regionali la disciplina di alcuni temi fondamentali e alcune Regioni, anche in questo caso, si sono già mosse per l’adeguamento alla riforma delle proprie leggi (L.R. Toscana n. 58 del 2018 e L.R. Veneto n. 32 del 2018).

Ulteriori possibili oggetti non espressamente richiamati dal codice del Terzo settore

Molti sono gli oggetti che, pur non espressamente richiamati dal Codice, potrebbero essere oggetto di disciplina a livello regionale. Ad esempio, tutte le forme di rapporto tra P.A. e Terzo settore che non si identificano con gli istituti degli artt. 55 e 56 CTS, ma stanno nel quadro più ampio degli accordi disciplinati dalla legge n. 241 del 1990. Vengono in mente, i patti di collaborazione per la gestione dei beni comuni, elaborati dall’Associazione Labsus e dal professor Gregorio Arena; il sistema territoriale dei CSV e la loro possibilità di compartecipare all’esercizio delle funzioni amministrative, tramite convenzioni ad hoc tra il soggetto pubblico ed un soggetto, pur privato, ma accreditato per lo svolgimento di funzioni di rilevanza sicuramente pubblica (art. 61 e ss. CTS).

Ulteriori partizioni interne agli ETS di rilevanza regionale

Una disamina della realtà del Terzo settore regionale potrebbe condurre altresì a considerare l’esigenza di identificare – come si è detto in precedenza – ulteriori categorie interne al mondo del Terzo settore. Per esempio, la Regione Emilia Romagna ha configurato una categoria di enti rappresentativi del Terzo settore quali soggetti interlocutori privilegiati della Pubblica Amministrazione regionale (L.R. n. 17 del 2017, che all’art. 2 parla di «organismi unitari di rappresentanza maggiormente rappresentativi). Altre Regioni intendono introdurre la qualifica di reti associative operanti a livello regionale, come fattori di razionalizzazione della presenza e della rappresentanza del Terzo settore sul proprio territorio.

Organi di rappresentanza e partecipazione all’esercizio delle funzioni legislative ed amministrative

Una legge regionale avrà bisogno di ripensare gli organi di rappresentanza e/o di partecipazione nell’esercizio delle funzioni legislative e amministrative. Vi è, a questo proposito, il modello del Consiglio nazionale del Terzo settore (art. 59 CTS) e della Cabina di regia delle politiche regionali (art. 97 CTS). Ma le possibilità di una declinazione di tali sedi a livello regionale sono assai ampie.

Misure di sostegno e promozione della trasparenza e della valutazione di impatto sociale

Si ritiene importante, inoltre, la possibilità per le Regioni di intervenire con forme di finanziamento diretto e indiretto a sostegno delle forme, volontariamente accettate, di trasparenza e valutazione dell’impatto sociale. Si sosterrebbero così le scelte autonomamente fatte dagli enti del Terzo settore per sottoporsi volontariamente a delle forme di rendicontazione nei confronti di tutti gli stakeholder delle proprie attività, dello stato di attuazione della propria missione, delle fonti di finanziamento, ecc. Ciò rappresenterebbe un fattore di legittimazione importante del Terzo settore.

Le connessioni fra Terzo settore ed altri enti senza fini di lucro

Soprattutto nella fase istitutiva del RUNTS, un tema importante da non tralasciare è l’esistenza di un’ampia schiera di enti senza fine di lucro, che perseguono finalità meritevoli e svolgono le attività di interesse generale, che decidano di acquisire la qualifica di ETS. Pur nella consapevolezza che la Corte indica il principio di non omologazione degli enti del Terzo settore agli altri enti (C. cost. n. 131 del 2020), bisogna prestare attenzione al rischio di ragionare per “compartimenti stagni”, dimenticando larghe porzioni di corpi intermedi che per scelta o per necessità rimarrebbero al di fuori del Terzo settore, così come definito dal legislatore statale nel CTS. Sta nell’autonomia e nella sensibilità del legislatore regionale cogliere questa presenza e provare comunque a valorizzarla, nella prospettiva ampia del principio di sussidiarietà orizzontale.

Disciplina delle singole attività di interesse generale

La disciplina di attività di interesse generale di cui all’art. 5 CTS può essere declinata specificamente sulla base delle esigenze del Terzo settore. Anziché assumere una prospettiva semplicemente “soggettiva”, ragionando per tipologia di enti, si può assumere anche una prospettiva “oggettiva”, prevedendo delle misure di favore nelle diverse di discipline di settore (che l’art. 5 CTS richiama e fa salve). Ad esempio, si potrebbe prevedere una diversa declinazione degli obblighi o degli oneri per gli ETS che operano in determinati ambiti, in relazione alla loro natura specifica o alla pubblicità che essi garantiscono tramite il RUNTS (ad es., la L.R. Marche, con la legge n. 8 del 2019, ha modificato l’art. 17 della legge n. 32 del 2014, recependo le novità dell’art. 55 CTS nell’ambito sociale).

Osservazioni conclusive: piste di riflessione

Esistono, dunque, spazi significativi di intervento regionale, sia sul piano dell’attuazione del Codice, sia sul piano della “configurazione” propria di un Terzo settore regionale, sia, infine, nella definizione dell’articolato pluralismo sociale regionale. Serve molta attenzione per calibrare sulla realtà regionale le norme del Terzo settore e occorre attenzione e sensibilità per istituire connessioni anche con i mondi esterni al Terzo settore e non a seguire delle forme di ragionamento iper–settoriali, che rischierebbero di non cogliere la potenzialità dell’attivismo civico presente nelle nostre delle nostre comunità.

LUCA GORI

Ricercatore Istituto Dirpolis, Scuola Universitaria Superiore Sant’Anna di Pisa

Centro di ricerca «Maria Eletta Martini»