Il Codice del Terzo settore impegna le amministrazioni pubbliche e gli stessi enti del Terzo settore in numerosi ambiti. Può dunque comprendersi come sino ad oggi siano rimaste in ombra alcune disposizioni, che potrebbero avere, tuttavia, un significativo impatto. Tra queste, vi è sicuramente quella contenuta nell’articolo 19 del Codice, «promozione della cultura del volontariato».
Pochissimi coloro che hanno provato a leggerla ed a riflettervi. Si prevede che le Pubbliche amministrazioni (tutte!) promuovono (quindi, devono promuovere) la cultura del volontariato – «nei limiti delle risorse disponibili» – in particolare tra i giovani, attraverso appositive iniziative da svolgere nell’ambito delle strutture e delle attività scolastiche, universitarie ed extrauniversitarie (cosa sono – o meglio non sono le attività extrauniversitarie?), anche attraverso il coinvolgimento delle OdV e degli altri enti del Terzo settore. La «promozione» della cultura del
volontariato è (anche) una funzione pubblica. Su questo non vi sono dubbi. Dunque, può trarsi con sufficiente chiarezza dalla disposizione che l’obiettivo posto deve realizzarsi mediante il concorso di (almeno) tre soggetti: le P.A., che sono le «protagoniste», le istituzioni scolastiche e
universitarie, gli enti del Terzo settore. Il fine è consentire, in particolare ai giovani che frequentano percorsi di istruzione e formazione, di venire a conoscenza del volontariato, delle attività che esso svolge, fino ad essere resi partecipi della «cultura» che esprime.
Nell’ambito della scuola, l’articolo 19 potrebbe trovare una attuazione nell’insegnamento di cittadinanza e costituzione. Insegnare agli studenti che, accanto allo Stato-apparato, vi è uno Stato-comunità, che è popolato dagli attori espressioni del civismo attivo è già un primo seme, tutt’altro che scontato, che viene piantato per imparare a «leggere» la realtà politico-istituzionale in forme non semplificate. 11 richiamo alla scuola, peraltro, non deve far dimenticare il panorama dei Neet (Not in Education, Employment or Training), una fascia di giovani per i quali la prospettiva del volontariato potrebbe essere una «motivazione» per cambiare l’orizzonte della loro vita: per loro l’aggancio della scuola non c’è ed è necessario, quindi, individuare altre forme.
Ci pare urgente provocare una riflessione su cosa significhi l’espressione «cultura del volontariato». Il volontariato è un fenomeno che ha da sempre una pluralità di manifestazioni, che si trasforma incessantemente e rapidamente per rispondere ai bisogni delle comunità. Non è riducibile ad una sola, singola esperienza: se la «cultura» fosse monodimensionale, si disperderebbe un patrimonio immenso, specialmente nel nostro Paese. Ciò che non muta, però, è la radice profonda: l’idea che sia inscritto, dentro il testo costituzionale, che l’uomo è naturalmente chiamato ad instaurare connessioni con gli altri uomini, e che è un «valore» il rispondere, pur in diversi modi, ai bisogni della comunità e dei singoli, anche a prescindere da un ordine dell’autorità o da un movente di natura utilitaristica. La narrazione dei casi, delle esperienze più innovative, delle storie più
risalenti, dei protagonisti più affascinanti sarebbe il miglior abbecedario per la promozione di questa cultura. Pensiamo al valore enorme che stanno assumendo le esperienze di rigenerazione e gestione comune di luoghi e beni comuni, veri e propri poli attrattivi per i giovani.
Una funzione della P.A., si diceva. Il rischio dell’inerzia è assai forte, anche perché l’intera operazione dovrebbe realizzarsi senza nuove risorse. Non si deve dimenticare che la cifra distintiva del volontariato è l’autonomia
rispetto all’amministrazione: il volontariato, spesso, si è posto «contro» il potere pubblico, provocando il cambiamento o l’aggiornamento di politiche. I grandi maestri del volontariato ce lo hanno insegnato e dimostrato. Cultura del volontariato è, quindi, educazione alla libertà, all’autonomia ed alla responsabilità come cittadini. Una funzione svolta in solitudine dalla P.A. rischia di essere schiacciata su logiche conservative, gestionali o puramente burocratiche. Ed allora proviamo ad avanzare una proposta: perché ad «accendere la miccia» nella P.A. non provano a farlo una «coalizione» di soggetti coinvolti nel Terzo settore (quali i Csv, le fondazioni bancarie, le reti associative), mettendo insieme competenze, conoscenze e qualche risorsa economica? Si potrebbero così raggiungere più facilmente scuole, università, ospedali, enti locali, ‘ecc. Se; già vi fosse, qualche buona prassi, sul piano della «promozione della cultura» tramite la P.A., dovrebbe essere raccontata. L’alternativa è che l’indicazione del Codice del Terzo settore rimanga lettera morta, e sarebbe un peccato.
*Centro di ricerca Maria Sletta Martini – Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa
**Articolo pubblicato su Buone Notizie del Corriere della Sera (01.12.2020).