La «fiducia» come fondamento delle relazioni fra pubblica amministrazione e Terzo settore

Contributo contenuto nel “Rapporto 2020. Un rapporto di fiducia. Le relazioni tra pubblico e privato dalla diffidenza alla collaborazione” (edito da Il Mulino e prodotto da Italiadecide). a cura di Emanuele Rossi [1] -Luca Gori [2]

  1. Le coordinate costituzionali del Terzo settore. – La studio del tema che è stato affidato presuppone di partire dalla definizione di alcune coordinate costituzionali. Perché valorizzare il Terzo settore, nel quadro del pluralismo sociale della Costituzione repubblicana? Si tratta di una disciplina (quella relativa al Terzo settore) che – come vedremo – premia alcune formazioni sociali, considerandole particolarmente meritevoli, e lascia a una regolamentazione di diritto comune le altre. Perché tutto questo sia coerente con la Costituzione (e con il principio di eguaglianza in particolare) occorre evidentemente che tale trattamento differenziato risulti ragionevole, e pertanto finalizzato al perseguimento di interessi costituzionalmente ritenuti meritevoli di tutela. La legislazione sul Terzo settore, infatti, enuclea all’interno del genus formazioni sociali un sottoinsieme di enti che presentano (devono presentare) caratteristiche omogenee di meritevolezza quanto a finalità perseguite, ambito di attività e modalità di svolgimento, tutti aspetti da commisurare rispetto ai principi ed ai valori costituzionali. Questo è il punto costituzionalmente decisivo, per il quale assume valore determinante la definizione di “Terzo settore”: una definizione che, da un lato, deve giustificare la fiducia legislativa nei confronti di tali enti, e dall’altro deve essere in grado di reggere ad una valutazione di ragionevolezza (sul versante negativo) e di giustificare la meritevolezza del trattamento riservato (sul versante positivo). La definizione, poi, non è esaustiva: occorre infatti valutare se il trattamento giuridico riservato agli enti del Terzo settore sia ragionevolmente commisurato alla diversità tra tali enti e quelli esclusi, e non produca invece una irragionevole disparità di trattamento. Connesso a questo, vi è il tema della relazione fra Terzo settore e Costituzione: ovvero la connessione tra la tutela della libertà, anche organizzativa, che deve essere costituzionalmente garantita a tutte le associazioni in forza dell’art. 18 Cost. e l’imposizione in via legislativa (o comunque normativa) di limiti e vincoli a tale libertà, in ragione delle finalità “pubbliche” ad esse attribuite. Si può comprendere, infatti, che l’attribuzione agli enti del Terzo settore di funzioni pubbliche, o comunque rilevanti per l’interesse pubblico (quali sono le attività “di interesse generale”), presupponga da parte del soggetto pubblico responsabile l’individuazione di modalità di svolgimento di dette funzioni: se, ad esempio, il compito di erogare una prestazione sanitaria (o sociale o di altro genere), finalizzata alla tutela di un diritto garantito dalla Costituzione, viene attribuito da parte dell’ente pubblico ad un ente privato (nel nostro caso, del Terzo settore), l’ente pubblico può ed anzi deve definire requisiti e modalità per l’erogazione di detta prestazione, a tutela dei diritti la cui tutela rientra nella propria competenza. E tali requisiti e modalità possono configurarsi quali limiti alla libertà dell’organizzazione nella scelta delle modalità di azione e di realizzazione delle proprie finalità, purché essi siano apprezzabili in una logica di bilanciamento ragionevole. Ma la legislazione che si è prodotta nel corso degli anni ha fatto emergere anche un altro profilo, e cioè che i limiti che il legislatore ha posto alla libertà associativa non hanno riguardato soltanto lo svolgimento delle funzioni, ma si sono spinti a regolare anche le modalità organizzative dell’ente stesso: prevedendo, ad esempio, la democraticità della struttura, le modalità di redazione dei bilanci, la presenza di organi di revisione, e così via. Tali aspetti presentano profili problematici maggiori di quelli appena indicati, in quanto la corrispondenza tra limiti imposti e funzioni svolte (o attribuite) risulta di meno immediata evidenza, e deve pertanto essere scrutinata con maggiore attenzione, pur avendo la ratio giustificatrice ancora nelle misure di favore.

  2. L’art. 118, u.c. Cost.: sussidiarietà orizzontale nella prospettiva giuridica – In questo quadro, l’articolo 118, u.c. Cost., a quasi venti anni dalla sua entrata in vigore, continua a rappresentare un terreno di indagine assai fertile per la ricerca giuridica. La sua collocazione all’interno del Titolo V della Costituzione e, segnatamente, nella disposizione dedicata alla dislocazione delle funzioni amministrative fra Stato ed enti territoriali, rischia di non far apprezzare la portata del principio di sussidiarietà orizzontale, nel suo divenire principio di diritto costituzionale positivo. La disposizione costituzionale esprime l’obbligo, a carico degli enti pubblici territoriali (Stato, Regioni, Province, Città metropolitane e Comuni) di «favorire», nell’ambito delle proprie competenze e poteri, l’iniziativa autonoma di cittadini, singolo ed associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, «sulla base del principio di sussidiarietà».

Anzitutto, conviene chiarire alcune questioni interpretative di fondo.

In primo luogo, si è in presenza di vero e proprio obbligo giuridico, di fonte costituzionale, e non di un mero principio programmatico o orientamento politico. In tal senso, l’intero sistema dei pubblici poteri è chiamato ad adottare, quale criterio per l’esercizio delle proprie funzioni e poteri, il principio di favorire l’iniziativa che provenga dai cittadini, allorché tale iniziativa sia “autonoma”, da intendersi come indipendente da un ordine o imposizione dell’autorità, ed esprime un contenuto di “interesse generale”.

La formulazione costituzionale del principio di sussidiarietà orizzontale rimanda alla nozione di attività di interesse generale, che non è puntualmente definita. Se, da una parte, gli indici sulla cui base identificare tali attività possono essere desunti a partire dal dettato costituzionale medesimo, la declinazione in concreto di ciò che esse sono, è stato talvolta definito direttamente dal legislatore (come nel d.lgs. n. 460 del 1997, in tema di Onlus o del d.lgs. n. 155 del 2006, sull’impresa sociale), mentre, in altri casi, è stato rimesso all’autonomia dei corpi intermedi e delle amministrazioni con le quali, di volta in volta, tali corpi si sono relazionati (ad es., così nella legge n. 266 del 1991 sulle organizzazioni di volontariato).  

Le attività di interesse generale non si identificano con le attività di interesse pubblico. Le prime, infatti, paiono avere un ambito di riferimento più ampio: si riferiscono all’insieme delle attività che soddisfano comunque interessi, bisogni ed aspirazioni della comunità, ancorché non assunte come proprie dalla pubblica amministrazione. Può dunque avvenire – e legittimamente – che una attività possa obiettivamente qualificarsi di interesse generale, ma al contempo non sia ritenuta come di interesse pubblico.

Eppure, l’intermediazione dei pubblici poteri nell’individuazione delle attività di interesse generale è, da un lato, problematica poiché restringe il campo delle attività e, potenzialmente, potrebbe essere utilizzata a fini riduttivi del pluralismo sociale; dall’altro, però, è difficile ammettere che ciascun consociato o gruppo di consociati possa qualificare, autonomamente, una determinata attività come di interesse generale e invocare, pertanto, la garanzia costituzionale della c.d. sussidiarietà orizzontale. Appare evidente, come si tratti di una questione di fiducia: fiducia nella capacità del legislatore di individuare ciò che è di interesse generale, fiducia nei corpi intermedi di definire come di interesse generale attività che siano costituzionalmente meritevoli.

L’equilibrio disegnato dal legislatore costituzionale è quindi molto più delicato di quanto non appaia a prima lettura. Si giuoca, infatti, su una dialettica costante e collaborativa fra le espressioni delle autonomie sociali, che operano in seno allo Stato-comunità, ed i pubblici poteri, espressione dello Stato-apparato, non potendosi escludere l’esplodere di tensioni o conflittualità, qualora una attività non sia qualificata come di interesse generale (pur essendo ritenuta come tale dai consociati o parte di essi), oppure che una attività di interesse generale non riceva un adeguato e coerente trattamento di favore.

D’altra parte, in questo complesso bilanciamento, spetta ai pubblici poteri stabilire forme di monitoraggio e di controllo sullo svolgimento dell’attività che consentano di garantire che esse siano svolte in conformità alle norme che ne disciplinano l’esercizio, al fine di tutelare l’interesse pubblico che certe misure di favore siano indirizzate effettivamente nei confronti di soggetti ed attività meritevoli.  

  • Le “relazioni” di fiducia fra cittadini e pubblici poteri – La declinazione, in concreto, del principio di sussidiarietà orizzontale presuppone, dunque, che siano definite le «attività di interesse generale», i caratteri dell’«autonoma iniziativa» dei cittadini singoli ed associati, gli istituti tramite i quali si realizza il trattamento di favore da parte dei pubblici poteri e le forme (ed i limiti) entro cui si può sviluppare la collaborazione. Eppure, alla radice, la disciplina costituzionale sopra ricordata, pur sommariamente, esprime l’esigenza che sussista una relazione di profonda fiducia fra poteri pubblici e soggetti privati, in grado di costituire il tessuto connettivo ove impiantare, solidamente, una disciplina normativa di favore più generale ed una disciplina specifica sui rapporti fra P.A. e Terzo settore.

L’esperienza quotidiana mette in evidenza come sussista una trama di rapporti e relazioni ispirata all’idea che i pubblici poteri effettivamente riconoscano l’autonoma iniziativa dei cittadini singoli ed associati come equiordinata rispetto e sé medesimi, e che pertanto garantiscano condizioni certe, stabili e favorevoli per il suo sviluppo; del pari, emerge come i cittadini singoli ed associati, che intraprendono iniziative di interesse generali, avvertano la consapevolezza della responsabilità che loro compete, nel quadro dell’attuazione della Costituzione repubblicana, e quindi accettino di instaurare forme di dialogo e collaborazione leale con i pubblici poteri.

In assenza di fiducia, si può ipotizzare che le iniziative dei pubblici poteri e le autonome iniziative dei consociati si collochino, rispettivamente, lungo direttrici di reciproca indifferenza: anche qualora siano previste norme di favore (sul piano tributario, ad es.) il messaggio veicolato ai consociati sarebbe quello della mera garanzia di uno spazio di libertà di agire alle condizioni stabilite dall’ordinamento. Non si tratterebbe pertanto di fiducia (se non nella misura in cui garantire libertà di azione presuppone comunque un atteggiamento di fiducia), bensì solo di un rapporto intermediato tramite norme giuridiche che disciplinano le condizioni alle quali quella iniziativa può assumere una rilevanza sul piano giuridico.

Ove poi si diffondano atteggiamenti di sfiducia, si realizzerebbe una vera e propria diversione rispetto al modello costituzionale: nonostante siano previste norme di favore, sul piano della loro attuazione concreta, reciprocamente si instaurano rapporti di conflittualità che impediscono, di fatto, il pieno dispiegarsi di quelle misure favorevoli. Ciò perché il presupposto dal quale la relazione si origina è, dal lato pubblico, che di quelle misure si intenda abusare e, da quello privato, che tramite tali misure si miri a condizionare la libertà dei soggetti privati.

Tali atteggiamenti, che sono a monte degli istituti di collaborazione e delle misure di favore che possono essere adottate in attuazione dell’art. 118, u.c. Cost., si riflettono inevitabilmente sul rapporto esistente anche fra la generalità dei consociati (anche in orizzontale, fra di loro), i pubblici poteri e le autonome iniziative dei cittadini.

Infatti, una relazione giuridica fra quest’ultimi due che si nutra di indifferenza o di sfiducia, conduce inevitabilmente ad una generale, diffusa disaffezione della generalità dei consociati rispetto all’intrapresa di nuove e più efficaci autonome iniziative di interesse generale, con contestuale incremento delle porzioni di potere esercitato direttamente dai pubblici poteri, spesso in forme poco efficaci ed adeguate rispetto ai bisogni ed alle aspettative. Con la conseguenza, paradossale, che la sfiducia riversata sulle autonome iniziative di interesse generale finisce per contagiare gli stessi pubblici poteri.

É essenziale, quindi, notare che – come scrive Luhmann nel suo lavoro dal titolo La fiducia (1996) – la fiducia sia «alla base della legge nel suo complesso», fermo restando che «il sistema giuridico, nell’applicare il principio della fiducia, deve porsi delle limitazioni per non mettere in pericolo le costruzioni giuridiche più solide» (quindi, una fiducia che non sia a-critica e ingenua) e che, per altro verso, «la fiducia non può ridursi semplicemente a una fiducia nella legge e nella possibilità sanzionatoria di quest’ultima».

  • La riforma del Terzo settore – La recente riforma del Terzo settore (avviata a partire dalla legge-delega n. 106 del 2016, cui è stata data attuazione principalmente con i d.lgs. nn. 112 e 117 del 2017) ha vissuto, in profondità, il travaglio della norma giuridica chiamata a innestarsi su un tessuto di (s)fiducia. Il tempo nel quale il cantiere della riforma è stato avviato, infatti, è stato connotato dalla successione di alcuni scandali che hanno avuto vasta eco mediatica (forse eccessiva, rispetto alla reale incidenza su questo mondo assai complesso: in particolare, Mafia Capitale; ma anche la crisi di grandi realtà del not for profit, gli scandali nel settore delle migrazioni), mettendo a dura prova i rapporti di collaborazione fra enti pubblici e soggetti privati e fra quest’ultimi e la pubblica opinione. La riforma, quindi, è stata chiamata non solo a definire le condizioni e le caratteristiche giuridiche in presenza delle quali è possibile identificare l’autonoma iniziativa di cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, ma più in generale a concorrere a ridefinire uno scenario di fiducia, in grado di rendere possibile la partnership fra pubblico e privato e, più in generale, di orientare positivamente l’atteggiamento di tutti i soggetti portatori di interesse. Senza questa chiave di lettura, non è possibile – oggi – cogliere il senso ed apprezzare i problemi, tutt’ora irrisolti, che la disciplina giuridica del Terzo settore pone.

Il c.d. Codice del Terzo settore (d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117, per brevità CTS) contiene, all’art. 4, c.1 la definizione di «ente del Terzo settore» (ETS). Come si è accennato, il legislatore ha individuato, all’interno dell’ampio panorama dei soggetti del pluralismo sociale, una categoria specifica – gli ETS – in possesso di taluni caratteri di meritevolezza tali da consentire l’applicazione di una specifica disciplina di favore, anche in attuazione dell’articolo 118, u.c. Cost. e, contestualmente, di un determinato regime di controlli. Tali soggetti non esauriscono certo lo spettro applicativo del principio di sussidiarietà orizzontale, potendovi essere ulteriori soggetti – in possesso di caratteri diversi – che pure soddisfano i requisiti previsti dalla disposizione costituzionale.

Gli ETS sono enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento, in via esclusiva o principale, di una o più attività di interesse generale in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi, ed iscritti nel registro unico nazionale del Terzo settore.

Le attività di interesse generale sono definite dal legislatore con una elencazione assai ampia, una sorta di bilancio dei settori di attività già oggi tradizionalmente occupati dagli enti del Terzo settore (art. 5 CTS). Una delle principali critiche rivolte all’elenco è che esso si limita a riprodurre, in gran parte, attività già previste dalla legislazione ordinaria, senza una sufficiente apertura verso l’innovazione. Bisogna notare, tuttavia, che si tratta sì di un’elencazione tassativa, che tuttavia può essere “aggiornata” (in ampliamento o riduzione) mediante un D.P.C.M. (quindi, con una fonte delegificante, rimessa alla disponibilità dell’esecutivo)[3].

Gli ETS così identificati sono ammessi a fruire di un sistema di vantaggi e ad adempiere ad un complesso di oneri. I vantaggi attengono, principalmente, ai rapporti con la pubblica amministrazione, alla disciplina della fiscalità diretta ed indiretta, alla possibilità di ricevere finanziamenti pubblici diretti per le loro attività di interesse generale. Più in generale, tuttavia, vi è un vantaggio reputazionale che discende dalla possibilità di qualificarsi come ETS all’interno dell’ordinamento, giovando per tale via di un incremento della fiducia che tutti i soggetti, pubblici e privati, possono nutrire nel Terzo settore.

Tale fiducia discende dagli oneri al cui adempimento gli ETS sono tenuti al fine di permanere all’interno della categoria. Non si tratta di obblighi, in linea generale: infatti, il legislatore definisce una serie di comportamenti all’adempimento dei quali è possibile fruire della qualifica e del regime degli ETS; diversamente, si determina una fattispecie di fuoruscita dal perimetro degli ETS (comunque gravida di conseguenze sul piano giuridico), con possibilità di proseguire comunque a vivere nell’alveo del diritto comune.

Su questo crinale di fiducia si consuma, oggi, una delle partite più difficili per il Terzo settore italiano. Infatti, a quali condizioni è possibile riconquistare o, comunque, consolidare un elevato livello di fiducia tramite una serie di norme giuridiche che prescrivano oneri o obblighi che siano in grado di dare evidenza della meritevolezza dell’attività svolta, dei fini perseguiti, dell’impatto generato, dell’organizzazione prescelta? La domanda è tutt’altro che oziosa.

Se, infatti, alla crisi di fiducia si intende rispondere “gravando” gli ETS di una congerie di limiti ed obblighi, si innesca una spirale assai problematica, che necessita di una valutazione alla luce dei criteri del paradigma della sussidiarietà orizzontale.

In linea generale, infatti, occorre realizzare un bilanciamento fra due interessi, entrambi meritevoli di tutela. In particolare, bisogna tutelare la libertà di scelta degli ETS sul come formarsi, organizzarsi, agire e, se del caso, sciogliersi, riconoscendo l’esistenza di uno spazio incomprimibile di autonomia delle formazioni sociali. Dall’altro, garantire che le misure di favore siano efficacemente indirizzate ed utilizzate. In tal senso, si prevedono clausole che disciplinano l’organizzazione, il funzionamento, la trasparenza, la pubblicità (e, in particolare, l’iscrizione in pubblici registri) nonché conseguenti forme di controllo, affidate ai pubblici poteri, che consentano di attestare la sussistenza e la permanenza di requisiti definiti. Eppure questo oneri, per essere costituzionalmente ammissibili, non debbono essere solo volontariamente assunti (in tal caso, infatti, si finirebbe col dare il crisma di legittimità a qualsiasi intervento di compressione dell’autonomia associativa, anche il più irrazionale, purché liberamente accettato), ma mirare a rendere evidente il possesso di un indispensabile requisito attitudinale (secondo una prospettiva di strumentalità dell’onere al fine perseguito), senza vulnerare inutilmente l’autonomia costituzionalmente protetta di tali formazioni sociali (quindi, calibrando l’intensità dell’onere secondo un canone di proporzionalità rispetto al fine).

Collocandosi su questo sentiero, si perviene all’esito di costruire l’ambiente favorevole alla costruzione di norme giuridiche che riposino su un legame di fiducia, nel quale ciascheduno possa intravvedere il rispetto dei propri diritti ed il soddisfacimento dei propri interessi. Al contrario, si fuoriesce da questo sentiero, si determina una alterazione profonda dell’equilibrio costituzionale e si incide, profondamente, sul clima di fiducia.

  • Alcuni casi recenti di (s)fiducia – Alcuni casi recenti meritano di essere criticamente proposti in questa sede, a mo’ di casi di studio. Se ne ripercorrono brevemente tre esempi che, al di là delle contingenze nelle quali si sono verificate, mettono in evidenza presupposti, contenuti ed effetti sul piano giuridico del decadimento del rapporto di fiducia: l’interpretazione delle norme in tema di rapporti fra P.A. e ETS; il trattamento differenziato riservato a taluni ambiti di attività di interesse generale; le norme sulla presenza di esponenti politici all’interno di formazioni sociali diverse dai partiti politici.   

4.1) Una delle novità più rilevanti che contraddistinguono il Codice del Terzo settore è la disciplina contenuta al Titolo VII – Dei rapporti con gli enti pubblici. Si tratta di (invero poche) norme che assumono un importante rilievo sistematico, essendo la norma che costituisce la “cerniera” fra enti del Terzo settore e pubbliche amministrazione: essendo pacifico che gli enti del Terzo settore esprimono naturaliter una attitudine specifica a collaborare, su un piano paritario, con gli enti pubblici per il perseguimento più efficace dei fini di interesse pubblico di quest’ultimi, ai sensi dell’art. 118, u.c. Cost., è stato necessario definire gli istituti tramite i quali è possibile che tale collaborazione possa avvenire. L’art. 55 CTS, in particolare, disegna di un modello relazionale in cui i soggetti del Terzo settore hanno possibilità di collaborare con tutte le amministrazioni pubbliche per lo svolgimento di tutte le attività di interesse generale, non attraverso i moduli “competitivi” del Codice dei contratti pubblici, bensì attraverso la messa in comune di risorse materiali, immateriali e finanziarie. Tutte le PP.AA. sono destinatarie dell’obbligo giuridico di assicurare «coinvolgimento attivo degli enti del Terzo settore», attraverso forme di co-programmazione e co-progettazione e accreditamento, poste in essere nel rispetto dei principi della legge n. 241 del 1990, nonché delle norme che disciplinano specifici procedimenti (in ipotesi, regionali, locali, di autonomie funzionali, ecc.). Non si tratta, certamente, di una pagina bianca, bensì solo da riordinare alla luce di diverse incertezze interpretative.

Ed infatti, subito era stata notata la problematica ed irrisolta ambiguità del rapporto fra il Codice del Terzo settore ed il Codice dei contratti pubblici (decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50), sotto il profilo del rispetto della disciplina della concorrenza stabilita dall’Unione europea e delle norme poste a presidio della trasparenza e della lotta alla corruzione.

Nell’assenza di indicazioni chiare del legislatore statale, il Consiglio di Stato [4], in risposta ad un quesito formulato dall’Autorità nazionale anticorruzione (ed è di per sé eloquente che sia l’ANAC ad aprire il dialogo istituzionale su questi aspetti), ha affermato che «le procedure previste dal Codice del terzo settore (…) configurano, in ottica europea, appalti di servizi sociali e, pertanto, sono sottoposte anche alla disciplina del Codice dei contratti pubblici, che si affianca, integrandola, a quella apprestata dal Codice del terzo settore». Anzi, sarebbe ragionevole per il Consiglio di Stato «ritenere che le Amministrazioni debbano volta per volta motivare la scelta di ricorrere agli stilemi procedimentali delineati dal Codice del terzo settore, in luogo dell’indizione di una ordinaria gara d’appalto». Diversamente, si determinerebbero effetti profondamente distorsivi della concorrenza («una sostanziale segregazione del mercato»): così, a giudizio del Consiglio, «in ossequio ai principi di parità di trattamento, non discriminazione e trasparenza, (…) l’Amministrazione dovrà puntualmente indicare e documentare la ricorrenza, nella concreta vicenda, degli specifici profili che sostengono, motivano e giustificano il ricorso a procedure che tagliano fuori ex ante gli operatori economici tesi a perseguire un profitto».

Emerge, in filigrana, una non adeguata considerazione della specificità degli ETS che si traduce in un atteggiamento addirittura sospettoso nei casi di totale “gratuità”, vista non come massima espressione della collaborazione fra ETS e PP.AA. – donare al pubblico solo per accrescere il benessere della comunità – bensì come «vulnus al meccanismo del libero mercato ove operano imprenditori che forniscono i medesimi servizi a scopo di lucro e dunque in maniera economica mirando al profitto».

L’effetto complessivo è quello di una rilettura del Codice del Terzo settore alla luce del Codice dei contratti pubblici, argomentando a partire da una presunta primazia del diritto euro-unitario, di cui quest’ultimo costituisce attuazione nell’ordinamento nazionale, sul diritto domestico. Il certo ancoraggio alle consuete procedure ad evidenza pubblica, con i loro rigori e garanzie, supplisce così ad una carenza di fiducia nelle capacità del Terzo settore di individuare, al proprio interno, gli anticorpi per marginalizzare fenomeni corruttivi e carenze di trasparenza. Ciò determina, però, la contrazione di alcune delle esperienze più virtuose di collaborazione, che non si fondano sui meccanismi competitivi dell’evidenza pubblica, ma sulla compartecipazione e moltiplicazione di risorse e responsabilità.

Immeditata è stata la traduzione di tale orientamento nelle amministrazioni, centrali e periferiche: congelamento delle opzioni più innovative in tema di co-progettazione da parte delle Regioni e degli enti locali, attesa di chiarimenti ed iniziative. Ma anche – giova dirlo – alcune reazioni vibranti ed appassionate, che hanno portato ad iniziative forti sul piano istituzionale.

     4.2) Un caso assai eloquente, quasi “di scuola”, è rappresentato dalla previsione di obblighi specifici in relazione a determinati ambiti di attività di interesse generale. Su un piano generale, è pur vero che la fiducia si nutra di trasparenza, intesa come disponibilità di informazioni su un soggetto che consente agli altri attori di monitorare il lavoro e la performance di questo. La trasparenza, pertanto, presuppone una dimensione relazionale fra due soggetti, la selezione di informazioni relative ad uno dei due soggetti della relazione, la predisposizione di mezzi atti a far sì che a tali informazioni si possa efficacemente giungere e, infine, una prospettiva teleologica (perché tali informazioni sono rese pubbliche). Entro tali coordinate, la trasparenza alimenta la fiducia.   

L’art. 12-ter del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 prevede un obbligo di trasparenza a carico delle sole cooperative sociali che svolgono «attività a favore degli stranieri di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286». L’obbligo per le cooperative sociali prevede la pubblicazione trimestrale, nei siti internet o portali digitali di ciascuna cooperativa sociale, dell’elenco dei soggetti a cui sono versate somme (sic!) per lo svolgimento di servizi finalizzati ad attività di integrazione, assistenza e protezione sociale. La disposizione fa sorgere alcune preoccupanti domande, a partire da un non celato atteggiamento di sfiducia nei confronti di una determinata attività di interesse generale (attività a favore dei migranti) e di una certa qualifica giuridica (cooperativa sociale).

Un obbligo di trasparenza così generalizzato a tutte le attività svolte nei confronti degli stranieri, per un verso, e così limitato ad una sola qualifica giuridica, se scrutinato alla luce del test di strumentalità, dovrebbe mettere in evidenza la connessione fra le informazioni oggetto dell’obbligo di trasparenza a carico di un soggetto privato ed il fine, di rilievo pubblicistico, che si intende perseguire. Una volta superato tale test di strumentalità, sussiste l’esigenza di verificare che la modalità di adempimento a carico di un soggetto privato, destinatario di uno specifico trattamento di favore legislativo per i fini che persegue e le attività che svolge quale è la cooperativa sociale, non sia inutilmente gravoso (canone di proporzionalità). Ebbene, la norma pare non superare questo scrutinio e, in definitiva, si rivela come preordinata più a disincentivare lo svolgimento di determinate attività a favore degli stranieri nella qualifica giuridica della cooperativa sociale, che non ad assicurare livelli adeguati di trasparenza a carico di specifici soggetti giuridici o a monitorare l’efficacia e l’efficienza dei servizi offerti generalmente all’interno di un rapporto con la pubblica amministrazione.

Essa testimonia un atteggiamento di sfiducia verso talune esperienze ben identificate, non solo rendendo più difficoltoso lo svolgimento dell’attività tramite una trasparenza disincentivante (poiché priva di senso, non accrescendo le informazioni utili a disposizione dei portatori di interesse), ma anche additando una certa porzione di realtà del Terzo settore come “destinatario” di osservazione intensiva e preferenziale. Breve è il passo per estendere tale trattamento, a secondo degli indirizzi politici, ad altre qualifiche giuridiche o attività.   

4.3) Ultimo caso che si propone alla riflessione riguarda, in profondità, proprio il tessuto connettivo che collega le autonome iniziative di cui all’art. 118, u.c. Cost. con la dimensione politico-istituzionale. L’art. 1, cc. 20 e 28 della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (c.d. Spazzacorrotti). La disposizione ha equiparato ai partiti politici una variegata serie di soggetti giuridici costituiti nella forma giuridica di fondazione ed associazione (non le società commerciali), in base ad una serie di indici presuntivi fra i quali, il più problematico, riguarda la composizione degli organi di amministrazione. Infatti, qualora tali organi direttivi fossero stati composti, in tutto o in parte, da membri di organi di partiti o movimenti politici, o da persone che siano o siano state, nei dieci anni precedenti, membri del Parlamento nazionale o europeo o di assemblee elettive regionali o locali, o da persone che ricoprano o abbiano ricoperto, nei dieci anni precedenti, incarichi di governo al livello nazionale, regionale o locale o, infine, da persone che ricoprano o abbiano ricoperto, nei dieci anni precedenti, incarichi istituzionali al livello nazionale, regionale o locale per esservi state elette o nominate in virtù della loro appartenenza a partiti o movimenti politici, sarebbe scattata una presunzione assoluta di politicità dell’ente che avrebbe comportato l’equiparazione ad un partito politico. L’effetto giuridico della presunzione sarebbe stato l’estensione del regime giuridico stabilito dal decreto-legge n. 149 del 2013 per i partiti politici, fra i quali, in particolare, una serie di divieti concernenti contributi ed altre forme di sostegno, nonché una ampia serie di obblighi di trasparenzae di sanzioni.

     Al di là dei contenuti della norma (di assai dubbia costituzionalità), è la radice della scelta che desta perplessità: un soggetto che abbia svolto o svolga incarichi politici, qualora assuma un incarico di amministratore in una qualsiasi associazione o fondazione, perseguirebbe in realtà un fine analogo a quello del partito nel quale ha militato, distorcendo con la sua sola presenza fini ed attività dell’ente. Appare chiaro come si tratti di una indebita inferenza (che sul piano giuridico-costituzionale, darebbe luogo ad una censura per irragionevolezza), che origina da alcuni e limitati fenomeni di utilizzo improprio di associazioni o fondazioni, da reprimere non tramite l’estensione a tutti i soggetti di limiti e controllo così penetranti che generano, appunto, sfiducia a doppio senso: nei confronti dei soggetti della sussidiarietà, nei confronti dei soggetti della politica.

Non sorprende, quindi, il tentativo di correzione portato avanti con il decreto-legge n. 34 del 2017, a fronte di vibranti proteste da parte delle organizzazioni rappresentative del Terzo settore: gli indici di presunzione di politicità sono stati fortemente ridimensionati (ancorché non eliminati del tutto) e l’ambito di applicazione della norma è stata ristretta agli enti diversi dagli ETS. Eppure, la norma rimane un eloquente esempio del clima che va diffondendosi. 

  • Diritto, fiducia e politica. Questi casi, a loro modo emblematici di un clima di crisi di fiducia fra poteri pubblici e Terzo settore, non debbono indurre ad atteggiamenti pessimistici. Al contrario, nonostante tutto, gli indici di fiducia dei cittadini italiani nei confronti di ciò che, con qualche approssimazione, viene definito Terzo settore rimangono altissimi. Nel Paese si moltiplicano esperienze di grande interesse, nelle quali il pubblico ed il privato si incontrano su terreni di collaborazione inediti e con soluzioni giuridiche innovative, nelle quali si ibridano modelli diversi (dalle imprese sociali miste pubblico-privato, all’accreditamento di servizi di welfare locale, alle esperienze di prossimità ed informalità).

Sul piano giuridico, tuttavia, occorre ripartire da una ricerca che metta a fuoco i contenuti, i limiti e le potenzialità dell’articolo 118, u.c. Cost., nel quadro più ampio dell’intero dettato costituzionale. Alle norme giuridiche si chiede, spesso, ciò che esse, da sole, non possono fare. Orbene, come si è tentato di dimostrare, le norme giuridiche riposano in gran parte sul patrimonio di legami di fiducia che, nel caso al nostro esame, si instaurano fra soggetti pubblici e soggetti privati. Al limite, alle norme giuridiche può essere chiesto di ordinare l’insieme dei legami fiduciari, reprimere i tradimenti di tali legami, creare le condizioni perché essi si rinsaldino e durino nel tempo.

La costruzione dei legami fiduciari è, però, questione che spetta, in misura preponderante, alla politica. Laddove alla politica si sostituisca un legislatore che intenda ricostruire la fiducia reciproca mediante le norme giuridiche, esso è votato, con ogni probabilità, all’insuccesso: nessuna norma giuridica, per quanto cogente, potrà assicurare che si possa avere fede nell’intento, nella parola, nell’azione dell’altro. Il rischio dell’inadempimento, per quanto mitigato, è sempre in agguato e non si può combattere aumentando la complessità e farraginosità delle norme.

Al contrario, solo quando la politica crea il contesto nel quale la fiducia reciproca è patrimonio disseminato e condiviso, allora il diritto interviene per tradurre tale fiducia in norme ed istituti che tentino di rendere migliori le nostre comunità.


[1] Professore ordinario di diritto costituzionale – Scuola Superiore Sant’Anna (Pisa)

[2] Ricercatore in diritto costituzionale – Scuola Superiore Sant’Anna (Pisa).

[3] Il D.P.C.M. è adottato «tenuto conto delle finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale di cui all’articolo 1, comma 1, della legge 6 giugno 2016, n. 106, nonché delle finalità e dei principi di cui agli articoli 1 e 2 del presente Codice» al fine di aggiornare l’elenco delle attività di interesse generale, il cui svolgimento consente l’acquisizione della qualifica di “ente del Terzo settore”. Tale D.P.C.M. è adottato ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400 su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, previa intesa in sede di Conferenza unificata, acquisito il parere delle Commissioni parlamentari competenti, che si esprimono entro il termine trenta giorni (decorsi i quali può essere comunque adottato). Analoga previsione è contenuta, in tema di impresa sociale, all’art. 2, c.2, del d.lgs. n. 112 del 2017.

[4] Consiglio di Stato, Commissione speciale, Normativa applicabile agli affidamenti di servizi sociali alla luce del d.lgs. 18 aprile 2016 n. 50 e del d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117, parere del 26 luglio 2018.